CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 29 novembre 2017

LA NATURA MIA MADRE (46)










































Precedenti capitoli:

La morte degli Dèi (45)

Prosegue in:

La Natura mia madre (47) &















 .....il loro 'Verbo'... (48)














E’ ai bordi di una foresta, dove, al chiarore di una ambigua luna, raccolse qualche ghianda, che inghiottì, come una bestia. Dei secoli erano passati dal giorno; una metamorfosi era avvenuta in lei. La bella, la regina di paese non c’era più; la sua anima mutata mutava anche il suo comportamento. Era come un cinghiale su queste ghiande, o come una scimmia, accovacciata. Rimuginava pensieri per niente umani, quando sente o crede di sentire un grido di civetta, poi una selvaggia risata.

Ha paura, ma forse è la ghiandaia burlona che imita tutte le voci; sono i suoi soliti scherzi.

…La risata riprende…

…Da dove viene?

Non vede nulla!




Si direbbe che esca da una vecchia quercia.

…E la sente distintamente:

“Eccoti qua finalmente. Non sei venuta volentieri. E non saresti venuta, se non avessi toccato il fondo del tuo ultimo bisogno. Hai avuto bisogno, l’orgogliosa, di correre sotto la frusta, gridare, di chiedere pietà, di essere schernita, perduta, senza riparo, respinta da tuo marito. Dove saresti se, stasera, non avessi avuto la bontà di farti vedere: lo sai che ti stanno preparando quelli della torre?
E’ tardi, molto tardi, che vieni a me, e quando t’hanno chiamata ‘la vecchia’. Giovane, non sei stata molto buona con me, col tuo piccolo folletto che ero, così premuroso nel servirti. Tocca a te ora (se ti voglio) servirmi e baciarmi i piedi. Fosti mia dalla nascita per la tua malizia contenuta, per il tuo fascino diabolico. Ti ero amante e marito.

Il tuo t’ha chiuso la porta.

Io no!

Io non chiudo la mia.




Ti accolgo nei miei possedimenti, sulle mie libere praterie, nelle mie foreste. Che me ne viene? Non sei nelle mie mani già da tanto? Non t’ho invasa, posseduta, riempita della mia fiamma? Ho cambiato, sostituito il tuo sangue. Non c’è vena del tuo corpo in cui io non circoli quale linfa vitale. Neanche tu puoi sapere quanto mi sei sposa. Ma le nostre nozze non hanno ancora avuto tutti i crismi. Ho dei princìpi, io, degli scrupoli.

Siamo una cosa sola per sempre!”.

“Messere, nello stato in cui mi trovo, che posso dire? Oh, se l’ho sentito, fin troppo bene, che da tempo voi siete tutto il mio destino. Mi avete maliziosamente accarezzata, esaudita, arricchita, per precipitarmi a voi”.




“Sì, sono io che t’ho salvata e t’ho fatta venire qui. Io ho fatto tutto, lo hai capito. Io t’ho perduta. E perché? Perché ti voglio tutta per me. Francamente, tuo marito mi annoiava. Tu temporeggiavi, mercanteggiavi. Io sono abituato altrimenti. Tutto o niente. Ecco perché ti ho un po’ lavorata, messa in riga, ti ho cotta al punto giusto, ti ho maturata per me. Vedi come sono raffinato. Io non prendo, come si crede, le tante anime sciocche che si darebbero. Voglio anime elette, condite come si deve di furore e disperazione. Vedi, non posso negarlo, come sei oggi, mi piaci; sei molto più bella; un’anima attraente. Ah, da quando ti amo. Ma oggi ho fame di te. Farò le cose in grande. Non sono di quei mariti che fanno gli avari con la loro donna. Se non volessi che essere ricca, lo saresti all’istante. Se non volessi che essere regina, prendere il posto di Giovanna di Navarra, benché altri ci tengano, si farebbe anche questo, e il re non ci perderebbe niente in orgoglio, in malvagità. E’ più grande essere la mia donna. Ma su, dimmi cosa vuoi”.




“Messere vendicarmi di quelli del Feudo e ricambiarli con medesimo male, nient’altro”.

 “Bellissima, bellissima risposta. Come ho ragione di amarti! E’ vero, questo comprende tutto, tutta la legge e tutti i profeti. Poiché hai scelto così bene, ti sarà dato, in più tutto il resto. Avrai tutti i miei segreti. Vedrai in fondo alla terra. Il mondo verrà da te e ti metterà l’oro ai piedi. Di più, ecco il vero diamante che ti do, mia sposa, la VENDETTA. Ti conosco, vecchia volpe, conosco il tuo desiderio più nascosto. Come vi si intendono i nostri cuori. Proprio con questo ti avrò, e per sempre.

…VEDRAI LA TUA NEMICA POLVERE SOTTILE IN GINOCCHIO DAVANTI A TE, chiedere pietà e pregare, felice se ti accontentassi di farle quello che lei ha fatto a te.
Piangerà. Tu, gentile, dirai: NO, e la vedrai gridare: morte e dannazione. Allora, sarà affar mio”.

“Messere, serva vostra. Ero ingrata, lo ammetto. Voi mi avete sempre esaudita. Vi appartengo, padrone, dio mio. Non ne voglio più altri. I vostri sono piaceri soavi. Servirvi è dolcissimo”.




...INTANTO NELLE STANZE DI QUEI CASTELLI   FEUDI BEN ARROCCATI NEL SECOLARE POTERE ISTITUZIONALIZZATO….:

Quelli che ancora si possono vedere, parlano più di tutti i libri. Uomini d’arme PRONTI PER NUOVE ANGHERIE (futuri colpi di stato), paggi, valletti, ammucchiati di notte sotto un paio di bassi soffitti, di giorno immobili sui merli, sugli spalti stretti, nella noia più desolante, respirano, vivono soltanto nelle scorribande per la vallata; non più scorribande di guerra sulle terre vicine, ma di caccia, e di caccia all’uomo, intendo dire angherie senza fine, infamie alle famiglie degli UOMINI LIBERI. Il signore sapeva benissimo che una simile massa d’uomini senza donne non se ne sarebbe stata tranquilla se non scatenandola ogni tanto.
L’odiosa idea di un inferno dove Dio impiega qualche anima scellerata, le più colpevoli, per torturare le più innocenti, che lui stesso gli lascia perché si divaghino; questo bel dogma del medioevo diventava realtà in tutto e per tutto.

L’uomo avverte l’assenza di Dio.

Il piacere è l’offesa, picchiare e far piangere.




Ancora nel Diciassettesimo secolo le nobildonne ridevano a crepapelle a sentire il duca di Lorena raccontare come i suoi uomini, in villaggi tranquilli, cacciavano, tormentavano tutte le donne, e anche le vecchie e con loro tutti gli ‘uomini liberi servi di nessuno’.
Lo sfregio colpiva maggiormente, è facile crederlo, le famiglie agiate, relativamente ragguardevoli, che c’erano tra i servi; le famiglie dei servi maggiori, che già nel Dodicesimo secolo vediamo alla testa del villaggio. La nobiltà le odiava, le derideva, le desolava. Non perdonava loro la nascente dignità morale. Faceva pagare alle mogli, ai figli, l’onestà e la saggezza.

Non avevano il diritto d’essere rispettate.


I posteri faranno difficoltà a credere che, presso i popoli cristiani, la legge abbia realizzato quello cui non arrivò mai nella schiavitù antica, abbia messo per scritto come diritto l’offesa accompagnata dalla calunnia più sanguinosa capace di straziare il cuore di ogni uomo degno di questo nome… 


















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