CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 31 ottobre 2015

FERNAO MENDES PINTO




































Prosegue in:

Altri prigionieri e morti giù nella stiva...













Il…..  venne distrutta nel corso della conquista, fra le fiamme degli incendi e il fetore della morte, ‘una delle più belle culture del mondo’.
La vita azteca, tuttavia, non trapassò immediatamente in una sorta di limbo culturale. La vita in quanto continuità biologica, proseguì. Le abitudini degli uomini sono difficili da cambiare: il cibo e la sua preparazione, le attività artigiane continuarono, e, allo stesso modo, vasti e attivi rimasero i mercati. Ma i tributi provenienti a dorso di portatore, dai villaggi sottomessi di regioni come il Guatemala, furono ormai solo quelli richiesti dai conquistatori.
Gli uccelli che un tempo fornivano le sgargianti penne per i costumi e gli scudi di guerra non li voleva più nessuno. Così, tra i primi articoli a scomparire dai mercati reali furono le penne del Quetzal. Membro della famiglia dei trogonidi, questo uccello, famoso per le splendide penne caudali verde-oro misuranti un metro di lunghezza, viveva, e vive, nelle foreste pluviali centro-americane, in una regione compresa fra il Messico meridionale e, attraverso il Chiriquì, il Panamà settentrionale. Delle 75.632 specie di uccelli classificate dai naturalisti, il Quetzal è forse la specie in assoluto più magnifica. Questo uccello ha una lunga storia di associazione coll’uomo delle Americhe; una storia che rimonta agli Olmechi, il popolo della gomma, di secoli precedenti i più noti Maya.  




Penne di Quetzal erano scolpite come motivo di decorazione architettonica, mentre le penne vere fungevano da simbolo di distinzione per vari tipi di elaborati copricapi. Gli Aztechi lo chiamavano 'quetzaltolotl', ed è possibile che esso vivesse in cattività, con altri uccelli, nelle uccelliere reali, che fornivano ai tessitori di mosaici di piume le penne della muta. Il Quetzal era anche un articolo di tributo. 
L’elenco azteco dei tributi a noi conservato riporta 371 villaggi tenuti a rendere un tributo annuo alla capitale messicana di Tenochtitlàn, e, fra questi, molti sono quelli obbligati a fornire una quantità enorme di penne caudali di quetzal. Nell’antica mitologia azteca fu associato al serpente, e ne nacque Quetzalcoatl, il ‘Serpente piumato’, cioè il Dio del cielo, superiore a tutte le divinità. Il mito diventò leggenda. Col tempo, sviluppandosi il tema, il dio del cielo fu immaginato di pelle bianca; poi si narrò che, adirato per la condotta del suo popolo, il Dio era salpato verso oriente su una zattera, giurando che sarebbe tornato per ‘Ce Actl’ ossia, secondo il calendario azteco, nel 1519.
Ora avvenne che Cortés arrivasse coi suoi armati proprio alla data fissata da ‘Quetzalcoatl’ per il proprio ritorno; e così, sfruttando la serie di coincidenze (malefiche), Cortés poté gettare una testa di ponte,  cinquecento uomini contro migliaia!, che, col tempo, avrebbe non solo distrutto le civiltà maya e azteca, ma altresì avviato la completa conquista dei due continenti americani. Tutto in base ad un equivoco, che fece intendere a Montezuma (nipote del primo Montezuma, detto l’‘Irato’) l’annunziato ritorno del ‘Sepente Piumato’. 
(Victor Von Hagen, Alla ricerca del sacro Quetzal)




Le nostre merci erano molte, e le nostre navi così cariche che tutti i giorni ci incagliavamo due o tre volte sui bassifondi scogliosi: i quali in alcuni punti misuravano quattro o cinque leghe ed erano circondati da banchi di arena così bassi che osavamo veleggiare soltanto in pieno giorno e sempre con lo scandaglio in mano. Per questa ragione, decidemmo di non fare nulla prima di esserci liberati di tutto il bottino che portavamo con noi, e Antonio de Faria non si preoccupava d’altro se non di trovare un porto ove poterlo vendere.  E guidandoci il nostro capitano per dare effetto a questa comune volontà, dovemmo faticare quasi tutta quella notte con le gomene di rimorchio per risalire il fiume perché la forza della corrente era tale che ci ricacciava indietro.
Mentre eravamo così affaccendati e con la coperta tutta ingombra di gomene e di cavi al punto che quasi non riuscivamo a muoverci, vedemmo spuntare dal fiume due grosse giunche, con castelli posticci a poppa e a prua, tende di seta, e tutte pavesate con bandiere dipinte di rosso e di nero, che davano loro un aspetto molto bellicoso, tenendosi accostate l’una all’altra per meglio concentrare le loro forze, ci attaccarono in modo così improvviso, che non avemmo alcun tempo di prepararci e fummo costretti a mollare in mare gomene e cavi così come si trovavano, per approntare le artiglierie ch’erano ciò che in quel momento ci serviva di più. Le due giunche ci furono addosso in un momento con alte grida, rullar di tamburi e scampanii: la prima salva da tre con la quale ci accolsero fu di ventisei pezzi d’artiglieria di cui nove erano falconetti e cortane; da ciò comprendemmo subito trattarsi di gente dell’altra costa di Malacca, ed il fatto ci turbò un poco. Antonio de Faria che sapeva il fatto suo, vedendole giungere incatenate comprese subito le loro intenzioni e puntò verso il largo, sia per avere il tempo di prepararsi, sia per far loro comprendere chi eravamo.




Anche i nemici, tuttavia, erano esperti della loro arte, e per non farsi sfuggire la preda dalle mani staccarono l’una dall’altra le due giunche per poterci meglio colpire, e come furono presso di noi ci abbordarono subito, lanciandoci addosso una spaventevole pioggia di frecce. Antonio de Faria si ritirò sotto il cassero assieme ai 25 soldati ch’erano nella sua giunca, e ad altri dieci o dodici schiavi e marinai tenendo a bada i corsari per circa mezz’ora con colpi d’archibugio, fino a quando essi ebbero consumate tutte le frecce; queste però erano sì abbondanti che infiorarono tutta la coperta.
Infine i più coraggiosi di loro, in numero di 40, decisero di portare a termine ciò che avevano iniziato, e saltarono dentro la nostra giunca, con l’intenzione d'impadronirsi della prua.  Il nostro capitano fu così costretto a riceverli, e impegnandoci tutti di buona lena, si accese una mischia così furibonda che, nel tempo di dire poco più di tre credi, il nostro capo fu così ben servito che dei 40 ne uccidemmo 26, mentre gli altri si gettarono in mare. Allora i nostri, per trar partito dalla vittoria concessaci dalla mano di Dio, si lanciarono in venti nella loro giunca, ove non trovarono molta resistenza dato che i più valenti erano morti, uccidendo a destra e a sinistra tutti quelli che incontravano. Fu poi necessario salvare la vita a quelli che s’eran gettati in mare, non essendovi braccia sufficienti per tante navi. Appena fatto ciò Antonio de Faria si affrettò a porger soccorso a Cristoforo Borralo che era alle prese con l’altra giunca, e stava assai dubbioso della vittoria, ché la maggior parte dei suoi uomini erano rimasti feriti. Ma piacque al Signore che al nostro arrivo i nemici si gettassero in mare, ove la maggior parte annegò ed entrambe le giunche caddero così in nostre mani.




Improvvisamente, Cristoforo Borralho si mise a gridare dall’altra giunca dove si trovava: ‘Capitano, capitano, venite ad aiutarci, che abbiamo più carne al fuoco di quanta se ne possa mangiare!’. Allora Antonio de Faria saltò subito dentro la giunca con quindici o sedici soldati e gli chiese cosa stesse succedendo. Borralho gli rispose che aveva udito a prua il vociare di molte persone che dovevano essersi nascoste, e Faria, avvicinandosi con tutti i soldati che aveva con sé fece aprire il boccaporto. Si udirono allora prorompere dal fondo altissime grida di: ‘Signore Iddio misericordioso!’. 
Assieme a sì spaventose urla e pianti da sembrare un fatto di magia. Il capitano, alquanto intimorito si accostò allora alla bocca della stiva con alcuni dei nostri, e vide un gran numero di prigionieri distesi sul fondo; non potendo ancora credere a ciò che i suoi occhi avevano visto, ordinò che qualcuno scendesse a vedere di che si trattasse. Due dell’equipaggio obbedirono subito e portarono in coperta 17 cristiani, fra i quali v’erano due portoghesi, cinque bambini, due giovinetti ed otto giovani, tutti ridotti in condizioni così pietose che era uno strazio guardarli. Dopo di ciò fu chiesto a uno dei due portoghesi di chi fossero quei bambini, come fossero caduti nelle mani di quel pirata e come quest’ultimo si chiamasse. Egli rispose che il pirata aveva due nomi, uno cristiano e l’altro pagano: il secondo era Necodà Xicaulem, mentre quello cristiano era Francesco de Saa...




 ...Quel nome lo portava da cinque anni e cioè da quando s’era fatto cristiano a Malacca. Il capitano della fortezza era a quel tempo Francesco de Saa, ed essendo egli stato padrino al battesimo gli aveva imposto quel nome e l’aveva anche sposato con una meticcia orfana, che era una donna assai per  bene e figlia di un portoghese di buon casato, al fine di aiutarlo ad accostumarsi a quel paese. Nell’anno 1534, mentre andava in Cina con una grossa giunca, sulla quale trasportava anche sua moglie e venti fra i più nobili e ricchi portoghesi della fortezza, giunto all’isola di Pullo Catan, si fermò per rifornirsi d’acqua, con l’intenzione di proseguire poi per il porto di Chincheo.
Ivi erano da due giorni, allorché essendo l’equipaggio tutto suo e cinese come lui, una notte ordinò loro di sollevarsi: vennero così uccisi a coltellate tutti i portoghesi e i loro figli mentre stavano dormendo e nessuno che fosse cristiano venne lasciato in vita. Ordinò quindi alla moglie da farsi pagana e di adorare un idolo custodito in uno scrigno da uno dei suoi uomini, divisando di darla in...




...moglie a quest’ultimo, una volta che fosse libera dalla legge cristiana. In cambio avrebbe avuto una sorella di quest’uomo che viaggiava sulla stessa nave, e che era pagana e cinese come lui. Ma poiché non volle adorare l’idolo né acconsentire a tutto ciò che egli chiedeva, quel cane le diede una sciabolata in testa facendole schizzare fuori il cervello.
Partitosi da quel luogo s’era recato a Liampo per far commercio e, temendo di ritornare a Platane a causa dei portoghesi che colà si trovavano, se ne andò a svernare in Siam. Tornato l’anno seguente a Chincheo, s’era impadronito d’una piccola giunca che proveniva dalla Sonda, uccidendo tutti i dieci portoghesi che l’occupavano. E poiché era già corsa voce su tutta la costa del male che ci aveva arrecato, temendo d’imbattersi nelle nostre forze, se n’era venuto in questa insenatura della Cocincia, per vendere la sua merce come mercante e per assalire le navi come corsaro, ogni qualvolta gli si presentasse un’occasione propizia. Già da tre anni aveva scelto quel fiume per le sue scorrerie, poiché vi si sentiva al sicuro da noi, dacché le nostre navi non erano solite far commercio nei porti di quell’insenatura e dell’isola di Hainan.
(Fernao Mendes Pinto, Peregrinacao)



















venerdì 16 ottobre 2015

CARLO GINZBURG (3)













































Precedenti capitoli:

Carlo Ginzburg (2/1)

Prosegue in:

Carlo Ginzburg (4)














...Delle streghe confesse, si servissero di unguenti capaci di provocare stati di delirio allucinatorio. Non è facile, tuttavia, estendere questa ipotesi anche ai benandanti. Né il Gasparutto né il Moduco fanno parola di unguenti: essi parlano soltanto di sonni profondi, di letarghi che li rendono insensibili consentendo l’uscita dello Spirito dal corpo.  
…Passiamo ora all’altra ipotesi…
Che molte streghe fossero epilettiche, e che molte indemoniate fossero isteriche, è certo. E tuttavia, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a manifestazioni che è impossibile ridurre all’ambito della ‘patologia’: per motivi statistici (di fronte ad un numero così elevato di ‘malati’ anche i confini tra salute e malattia si spostano), e, soprattutto, perché le presunte allucinazioni, anziché situarsi in una sfera individuale, privata, posseggono una consistenza culturale precisa – si pensi anzitutto al loro ricorrere in un ben circoscritto periodo dell’anno: le quattro tempora – ed esprimono contenuti propri di una determinata religiosità popolare o di un particolare misticismo deviato.
Lo stesso discorso vale per i benandanti…
Verrebbe spontaneo attribuire a crisi epilettiche le catalessi e i letarghi in cui essi asseriscono di cadere. Di fatto, un solo benandante – una donna, Maria Panzona, processata prima a Latisana e poi a Venezia dal Sant’Uffizio, nel 1618-1619 – risulta soffrire del ‘bruto male’, cioè di epilessia. Certo, nel suo caso le crisi che la colgono di continuo, perfino nel corso di un interrogatorio, avranno assunto in determinate circostanze – durante le tempora – la fisionomia dei letarghi rituali dei benandanti. Comunque sia il problema dei benedanti e delle loro credenze va risolto nell’ambito della storia della religiosità popolare, non della farmacologia o della psichiatria.




(Comune denominatore di una determinata ‘socialità’ e  ‘società’ il rifiuto e la conseguente emarginazione soggetta sempre ad invariate prassi e schemi comportamentali riflessi nella costante incapacità di comprensione, sia teologica, che, pur moderna scienza, psichiatrica (quindi medica), definire, cioè, con il dono della ricerca e sperimentazione imprimendo formula e diagnosi circoscritta alla pratica ortodossa e/o teologica, medica e/o religiosa; circoscrivere enumerare nonché pretendere decifrare (con formule ‘dogmatiche esatte’) tali fenomeni ed eventi ponendoli di fatto in un contesto alieno in cui evoluti e motivati, sottintesi al comune senso di percepire vita e natura così come all’alba del Sacro in ognuno nato indistintamente essere Spirito Anima di codesto incompreso Creato. Quindi nel paradosso di tale intento, cioè, ciò in cui si attesta il mito (o motivo) e la successiva sua evoluzione nel Sacro percepito, reprimendo o peggio riducendo (e/o talvolta o troppo spesso), consistenza e storicità antropologica della stessa sua genetica evoluzione, certificando sicuro miracolo (e principio, a tal proposito si enumeri l’attribuzione della presunta santità attestata o al contrario perseguitata) e negando incompreso evento trasmutato in ‘pericolo’ Eretico enunciato e successivamente denunciato. Esiliato in formula più o meno evoluta, sacra nella sua venuta: ‘materiale’ e ‘razionale’ interpretazione nell’irrazionale protesa. Come se volessimo negare alla montagna adorata all’elemento pregato all’animismo nato allo Sciamano studiato, stratigrafica voce ed appartenenza quindi ‘crosta’ cui il comune mondo abitato nato. E di cui, come ogni Elemento in Lei evoluto, Parola del Dio (Primo o Secondo) universalmente studiato. Invisibile allo Spazio e Tempo evoluto, frapposto e in bilico fra un’equazione, Big-Bang di certa consistenza, ed opposta ed immateriale ma sicura certezza (il campo di battaglia fra opposti ed invisibili Universi di cui Milarepa non fu certo il primo, cui i benandanti non furono né secondi né ultimi). Ritornando all’invariato punto di partenza di questa Eretica ‘ricerca’ ma con uguale ed invisibile certezza!... 




…Centomila anni fa il pianeta ospitava solo una manciata di ‘Homo sapiens’, dai quali è discesa senza eccezione tutta la popolazione umana odierna. Per deduzione, tale convergenza deve terminare in un unico ominide nostro antenato. Ciò che vale per la specie umana vale per tutte le altre. Per esempio, quasi tutti i nostri geni li abbiamo in comune con lo scimpanzè; qualche milione di anni prima che l’Eva africana camminasse per la savana, da qualche parte nelle foreste dell’Africa dimorava l’antenato comune dell’uomo e delle scimmie antropomorfe. E così via, indietro nel tempo. Quanto più si scava nel passato, tanto più imparentate risultano le specie che oggi sono ben distinte. Mezzo miliardo di anni fa avevo per antenato un pesce. Due miliardi di anni or sono, tutti i miei avi erano microbi. Lo stesso ragionamento vale per tutti gli organismi, compreso il cespuglio fuori dalla mia finestra, l’uccello che becca sul davanzale e i funghi nel prato. Se potessimo risalirne gli alberi genealogici abbastanza indietro nel tempo, i loro rami distinti finirebbero per intrecciarsi e fondersi. Possiamo raffigurarci un albero genealogico di tutto ciò che vive al giorno d’oggi, una sorta di superalbero della vita. Alla fine, tutti i rami di questo superalbero devono convergere, e non di poco, ma completamente, fino a restringersi a un tronco centrale. Questo antico fusto rappresenta un unico organismo primitivo, l’antenato comune di tutta la vita del pianeta, un microbico Adamo il cui destino è stato di popolare il pianeta con una miriade di discendenti.  Ma come è nato questo minuscolo organismo, questo capostipite di un miliardo di specie?  Dove è vissuto, e quando?  E che cosa è venuto prima di lui? Una prova dell’esistenza dell'antenato universale deriva dalla bizzarra questione della cosiddetta ‘chiralità’ delle molecole. La maggior parte delle molecole organiche non è simmetrica: la molecola differisce dalla propria immagine speculare esattamente come la mano destra differisce dalla mano sinistra. Questo fa pensare che tutti discendano da una stessa cellula, che conteneva ogni molecola nella particolare forma chirale in cui la ritroviamo oggi. - il curatore del blog - )




…Anche la ‘reazione’ dei giudici di Jurgensburg ricalca fin nei particolari quella degli inquisitori di Udine: entrambi rifiutano con stupore e indignazione il vanto paradossale dei benandanti, essere paladini della ‘fede’, ed in riferimento ai loro trascorsi in ambiti discorsivi e puramente ereticali circa l’antropologico riflesso e contesto del lupo, e con più esattezza del lupo mannaro qui con varianti certamente più valide e forse inaspettatamente confacenti alla invisibile natura vissuta per ogni loro dipartita dal materiale corpo per sempre vestito Spirito all’ululato disperato abdicato, avverso a quanto da sempre dall’uomo braccato, recinto baratro del visibile peccato.







All’inizio fu un Giano bifronte,
racconta lo strano frammento
di un mondo distante.
Inganna la vista sua sola
compagna,
faro che annuncia mirabile
visione, 
al porto della comprensione
della sua dimensione.
Lontano tempo che viaggia
nel mare che avanza,
frammento perfetto
di un pensiero non letto,
nel vasto Universo osservato,
ma non del tutto svelato. (4)    

Fra una donna che parla
e un strega che urla,
e lo sciamano che racconta
la strana avventura.
Rantolo di voce
chi non conosce ancora
la luce.
Sibilo di vento che è solo
tormento,
una nascita oscura
di un grande Universo.
Frammenti confusi di un primo vagito,
lo sciamano parla la lingua di Dio. (5)

Racconta la vita
come lui la raccolta:
sogno oracolare
un lamento che brucia,
stretto fin dentro la gola.
Poi parla con il vento,
suono difficile da catturare.
La coscienza assume la forma,  
la parola uguale colore
dell’elemento dell’Universo,
ora disceso fino alla grotta,
specchio della sua
invisibile e prima memoria.
Narra il suono di un tamburo,
corre per un patimento,
suo eterno tormento. (6)

Scandisce il tempo di un Dio,
nato dalla strofa di un boato,
precipitato da una forma perfetta,
ad un caos di prima materia.
E’ la danza dell’Universo,
inciampa poi s’alza,
vuol scoprire un mondo
privo del Primo Pensiero.
Spirito che abbraccia
la sua strana illusione,
parola che crea,
e tempo che prega.
Materia che nasce e muore,
in questa strana visione.
Scordando il suo principio,
prima e increata sostanza,
racchiusa in un punto
della mia memoria.
Quando l’intero mondo raccolto, 

















mercoledì 14 ottobre 2015

CARLO GINZBURG


















Prosegue in:

Carlo Ginzburg (2)













Contempliamo un tavolato che un tempo costituiva l’oceano di Tetide. Quarantacinque milioni di anni fa, quando la placca tettonica dell’India che allora era un continente separato si scontrò col ventre molle dell’Asia facendo erompere l’Himalaya a sud, quest’Oceano primordiale si prosciugò. Sull’altopiano tibetano sono ancora presenti fossili marini a conferma che il paese più alto del mondo un tempo era un Oceano. Mentre scendiamo faticosamente lungo la linea di faglia di quel memorabile sconvolgimento, una nuova vista si allarga davanti a noi…
In quest’aria rarefatta, nella quale una persona può essere individuata chiaramente a 15 chilometri di distanza, scorgo con un tuffo al cuore le steppe sfumate di viola del Tibet che digradano verso nord-ovest. Al di là di esse, una fila ininterrotta di montagne balugina all’orizzonte sotto nuvole a forma di cavolfiore che paiono statiche, e lo sono; nel lontano Nord invece fluttua il Gurla Mandhata, alto più di 7500 metri, che brilla sopra il lago sacro di Manasarovar. Nella sua vivida immobilità, questa terra potrebbe essere un fondale dipinto infilato nella fenditura della valle davanti a noi. L’artista voleva esprimere una tranquillità inumana e se n’è uscito con questo paesaggio. Il paese è spaventosamente isolato.




La stessa collisione tra placche che generò l’altopiano tibetano, lo circondò di montagne che lo proteggono e allo stesso tempo lo inaridiscono: il Karakorum a occidente, i deserti del Kunlun a nord. Anche nel più esposto Oriente, centinaia di chilometri di territorio montano quasi desertico dividono il Tibet dall’habitat agevole più vicino.
...A quali altre catene montuose possiamo estendere il modello ipotizzato per le Alpi?
Certamente all’Himalaya.
Le Alpi non sono che una piccola parte, spettacolare e geologicamente meglio studiata, di un sistema di catene che va dal rif nordafricano alla Cordigliera Betica, ai Pirenei, comprende le Alpi e prosegue attraverso i Carpazi e il Caucaso con gli alti rilievi dell'Hindukush, del Karakorum e dell’Himalaya. L'intero sistema alpino-himalayano mostra delle grandi linee caratteristiche strutturali comuni e i fossili ritrovati nelle loro rocce sedimentarie, correlabili fra loro sia per l’età che per l’ambiente di vita originario, hanno portato a ricostruire l’ipotetica Tetide come situata, a partire da 230 milioni di anni fa, fra il continente euroasiatico a nord e i continenti africano e indiano a sud. Nell’ambito del sistema, tuttavia, ogni singola catena a le sue peculiarità stratigrafiche, la sua propria disposizione geometrica, le sue deformazioni tettoniche specifiche, per non parlare di situazioni locali che paiono anomale e di regioni intere di cui si sa molto poco.




La catena dell’Himalaya è lunga 2500 Km, il doppio di quella delle Alpi. L’Everest, la sua cima più alta e anche la più elevata del mondo, è alta quasi il doppio del Monte Bianco. Dal Nanga Parbat a ovest al Namcha Barwa a est, la catena costituisce il principale muro divisorio climatico dell’Asia, poiché è l’ostacolo che ferma i monsoni. Curiosamente però la catena, benché su di essa si ergano ben 10 dei 14 ‘ottomila’ della terra, non costituisce uno spartiacque, che invece è situato più a nord, nel Tibet, a circa 150 Km delle creste principali. L’arco della catena himalayana, contrariamente a quello delle Alpi, è convesso verso sud. Si suppone che la zolla continentale indiana, sospinta verso nord, dopo la collisione con il continente euro-asiatico abbia continuato a premere contro quest’ultimo, provocando il rialzamento di tutta la propria fascia marginale.
Questa ipotesi dà una spiegazione alla convergenza verso sud delle strutture tettoniche e al fatto che sedimenti marini marginali della zolla continentale indiana si trovino oggi tutti ripiegati a costituire vette quali quelle dell’Everest e dell’Anapurna, con i loro calcari metamorfosati vecchi fino a 530 milioni di anni. Nel loro insieme queste rocce di origine sedimentaria costituiscono una fascia spessa 14 Km, con un’età compresa fra i 570 e i 65 milioni di anni. Il Tibet non appartiene più alla catena himalayana e, con il suo altipiano e le sue catene interne del Trans-Himalaya, geologicamente inizia a nord delle pietre verdi disposte lungo i corsi dell'Indo e dello Tsangpo: pietre verdi che vengono considerate come ‘sutura’ della collisione avvenuta 45 milioni di anni fa fra le due zolle continentali dell’Euroasia e dell’India.




Centomila anni fa il pianeta ospitava solo una manciata di ‘Homo sapiens’, dai quali è discesa senza eccezione tutta la popolazione umana odierna. Per deduzione, tale convergenza deve terminare in un unico ominide nostro antenato. Ciò che vale per la specie umana vale per tutte le altre. Per esempio, quasi tutti i nostri geni li abbiamo in comune con lo scimpanzè; qualche milione di anni prima che l’Eva africana camminasse per la savana, da qualche parte nelle foreste dell’Africa dimorava l’antenato comune dell’uomo e delle scimmie antropomorfe. E così via, indietro nel tempo. Quanto più si scava nel passato, tanto più imparentate risultano le specie che oggi sono ben distinte. Mezzo miliardo di anni fa avevo per antenato un pesce. Due miliardi di anni or sono, tutti i miei avi erano microbi. Lo stesso ragionamento vale per tutti gli organismi, compreso il cespuglio fuori dalla mia finestra, l’uccello che becca sul davanzale e i funghi nel prato.
Se potessimo risalirne gli alberi genealogici abbastanza indietro nel tempo, i loro rami distinti finirebbero per intrecciarsi e fondersi. Possiamo raffigurarci un albero genealogico di tutto ciò che vive al giorno d’oggi, una sorta di superalbero della vita. Alla fine, tutti i rami di questo superalbero devono convergere, e non di poco, ma completamente, fino a restringersi a un tronco centrale. Questo antico fusto rappresenta un unico organismo primitivo, l’antenato comune di tutta la vita del pianeta, un microbico Adamo il cui destino è stato di popolare il pianeta con una miriade di discendenti.
Ma come è nato questo minuscolo organismo, questo capostipite di un miliardo di specie?
Dove è vissuto, e quando?
E che cosa è venuto prima di lui?
Una prova dell’esistenza dell'antenato universale deriva dalla bizzarra questione della cosiddetta ‘chiralità’ delle molecole. La maggior parte delle molecole organiche non è simmetrica: la molecola differisce dalla propria immagine speculare esattamente come la mano destra differisce dalla mano sinistra. Questo fa pensare che tutti discendano da una stessa cellula, che conteneva ogni molecola nella particolare forma chirale in cui la ritroviamo oggi.
(C. Thubron, verso la montagna sacra; S. M. Buscaini, Geologia per alpinisti; P. Davies, Da dove viene la vita)




Il Lha Chu, il ‘Fiume degli Spiriti’, ci guida per otto chilometri lungo il corridoio di arenaria via via più pallida. Le pareti della valle si dispiegano in svettanti cortine rosa e ramate per un’altezza di mille metri su entrambi i lati. Una certa morbidezza della pietra modella in terrazze crepate che tagliano le fenditure verticali dei dirupi frantumando l’intera parete rocciosa in cubi ciclopici ininterrottamente per centinaia di metri. Poi, in alto, sferzati dal vento, gli strati si assottigliano, separandosi. S’innalzano in una filigrana di torrette e di balze, forate dall’illusione di altre porte ad arco, riempiendo l’orizzonte di templi e palazzi diroccati. Dove la roccia si fa rosa conchiglia, in particolare, tali sagome sembrano ardere in un altro etere. Tra l’una e l’altra, cascate gelate gocciolano dai canaloni o si rovesciano sulle cime delle rupi in vampate di ghiaccio. Quando queste infine raggiungono la valle ai nostri piedi, si sciolgono in affluenti che scorrono a fatica, intasando di schegge il Lha Chu.




Naturalmente i palazzi in cima alle montagne sono le residenze dei Buddha, e ogni singolarità nei picchi o nei massi diventa un segno della loro presenza o è la formazione spontanea di un prodigio sacro. Nel versante della valle opposto al Choku, i monaci scorgono sedici santi raggruppati nella roccia, mentre sulla sommità fluttua la tenda di seta di Kangri Latsen. Più avanti, mentre procediamo nel cammino, una corrente mistica porta giù dalla montagna la luce dell’arcobaleno, e una cupola di roccia a est è la fortezza del demone indù Ravana, convertito al buddhismo, con tanto di yak e di cane. Il masso che sporge nelle vicinanze è il reliquario di cristallo del santo Nyo Lhanangpa che racchiude la sua visione del Buddha, e al di là di questo, il dio scimmia Hanuman s’inginocchia per offrire incenso al Kailash. Alle nostre spalle, a est, la coda del meraviglioso cavallo di Gesar di Ling, l’epico re del Tibet, spunta dalle cime in una cascata ghiacciata, e i suoi sette fratelli abitano sette pinnacoli rocciosi lungo la via. A ovest, su tre picchi torreggianti alti 6000 metri, dimorano i tre grandi Bodhisattva della longevità, e un masso di granito accanto al nostro sentiero è la manifestazione di un Buddha che doma un serpente.




 Ovunque, per coloro che sanno vedere, la pietra pulsa di vita.

E sullo stesso Kailash brillano i portali glaciali che danno accesso al cuore della fortezza di Demchog. In questa complessa topografia, divinità buddhiste, induiste e bon impenitenti affollano il percorso in schiere che si sovrappongono. Ve ne sono migliaia, letteralmente. Spesso riesco a individuare un sito solo grazie a un pellegrino solitario, disteso a terra dove la mano o il piede di Buddha, bruciando come zolfo, a lasciato un'impronta nella roccia. Alcuni dèi e Bodhisattva volano tra le dimore in modo disorientato.
…Altri risiedono su diverse cime allo stesso tempo…
Ma, in un certo senso, sono sempre presenti fisicamente nelle loro dimore pietrificate, verso le quali i pellegrini si girano a pregare. In ogni punto in cui una grotta scava un dirupo e vi è memoria di un eremita, gesta di passata devozione impregnano la roccia, e i santi continuano a essere presenti in corpo mistico anche molto tempo dopo la morte. Schierati in file sui pendii del Kailash, i lha, gli dèi celesti, combattono i lhama-yin circostanti (destinati all’inferno), e le loro passioni li condannano infine a dolorosi cicli di rinascita. I demoni che affliggono i tibetani - i sa-bdag, ‘signori della terra’, i lu, serpenti neri in agguato sotto le acque, i terribili btsan con l’armatura sui loro cavalli volanti rossi - sono degradati a servi buddhisti all'ombra del Kailash, ma l’umore capriccioso della montagna - le frane e le tempeste improvvise - suscitarono paure compensative e nervosi riti propiziatori.

I pellegrini che ci seguono ormai sono pochi.




Procedono veloci, assorti e sorridenti. Molti percorrono l’impegnativo tragitto di circa 50 chilometri in 36 ore; alcuni lo completano in un giorno solo. E la fatica è un elemento essenziale.
Il sentiero si fa scosceso.
Gli yak e i jhaboo che seguivano il letto del fiume ora si trascinano pesantemente tra i pellegrini. Spesso mi fermo contro un masso, ansimante, temendo il primo attacco di nausea, davanti si estende un lungo anfiteatro di montagne le cui rocce sono nere sullo sfondo di uno spesso tappeto di neve. Ogni colore sembra strizzato via dal paesaggio. Solo il cielo a tratti splende azzurro sul flusso di creste che  scorre nella valle. In quest’aria ghiacciata, le persone sono nascoste sotto strati di vestiti e occhiali protettivi, e fra i tibetani che si muovono velocemente dondolando rosari, bastoni e thermos di tè al burro, è difficile distinguere gli indiani dai tedeschi, dagli austriaci, persino da un paio di russi. I massi diventano luoghi brulicanti di venerazione. Camminiamo in un labirinto spezzato di granito: rocce grandi come casette, grigio chiaro, rosa conchiglia.
Qui Milarepa sconfisse il suo rivale bon appoggiando un terzo masso gigantesco sul secondo sistemato dallo stregone, e lasciò questo pilastro in bilico con la sua impronta nella roccia.

Per i pellegrini ogni pietra parla.

Si sparpagliano e si siedono con familiarità tra di esse. Si infilano in una stretta apertura tra due massi per mettere alla prova la loro virtù, e strisciano sotto a un altro.
Le rocce divengono il giudizio della montagna. Un affioramento chiamato il ‘Luogo dei peccati bianchi e neri’ forma una rudimentale galleria, e i pellegrini devono attraversare quest’inferno simbolico prima di tornare lungo un altro passaggio a uno stato più elevato. In queste fenditure la pietra viva percepisce la purezza dei corpi che vi passano attraverso, e le pareti possono contrarsi all’improvviso intrappolando il reo. Tre pellegrini seduti insieme amabilmente ricordano un’epoca in cui le...













giovedì 8 ottobre 2015

RUDOLF OTTO (3)







































Precedenti capitoli:

Rudolf Otto (2/1)

Prosegue in:

Rudolf Otto (4)













Il Segnalibro (1)  (2)  (3)















....Della ‘storia religiosa’, che li porta ad una raffigurazione e conferisce loro una prodigiosa potenza sugli Spiriti…
Cerchiamo di rappresentarlo e di riconoscerlo nella sua univoca caratteristica ‘numinosa’…
…Ulteriormente si potrebbe forse dimostrare che le nozioni delle ‘Anime’ non ebbero alcun bisogno, per giungere a maturazione, di quei processi di cui ci parlano gli ‘animisti’. D’altra parte deve esser stato certamente un momento profondamente incisivo – ben più incisivo della scoperta del primo strumento o dell’invenzione del fuoco – quello in cui i morti non vennero più considerati come superflui, e semplicemente dimenticati, ma considerati come elemento ‘inquietante’. Approfondendo questo pensiero bisogna innanzi tutto rendersi bene chiara la situazione fondamentale: allora si sentirà, con l’agitarsi dell’‘inquietante’, che all’animo umano si è aperta una porta di un orizzonte completamente nuovo, di cui l’- ‘inquietante’ stesso non è che un primo e ‘antico’ aspetto. Ma la genesi della raffigurazione concettuale degli ‘Spiriti’ non è affatto la cosa più importante al riguardo, che deve individuarsi piuttosto nel momento qualitativamente sentimentale, a essa corrispondente. E non sta nel fatto che gli ‘Spiriti’ sono più sottili e meno visibili della ‘materia’ del corpo, o del tutto invisibili o evanescenti come aria. Spesso sono tutto questo e spesso non sono Nulla di tutto questo, e più spesso lo sono e non lo sono in pari tempo (potremmo dire ed attestare mondi simmetrici ed alieni alla dimensione della materia comunemente detta e quantificata).




L’essenza dell’‘Anima’ non va affatto ricercata nella sua raffigurazione fantastica o concettuale, ma innanzi tutto e sopra tutto nel fatto che è un ‘fantasma’ e nel fatto che suscita l’‘orrore’ che abbiamo sopra descritto. Ma anche qui il ‘fantasma’ non riceve affatto una spiegazione basata su sentimenti ‘naturali’. Né si riesce a spiegare l’ulteriore sviluppo mediante il quale questi ‘qualcosa’, sempre di per sé paventati e temuti, assursero ad una natura che li fece oggetto d’‘orrore’ e d’amore, e li rese capaci di specificarsi in eroi, in dèmoni, in santi, in dèi.
Il ‘potere’ può avere stadi preparatori naturali…
Scoprire un potere nelle piante, nelle pietre, negli oggetti naturali, e appropriarsene mediante il loro possesso; mangiare il cuore, la pelle di un animale o di un uomo, per assorbirne la potenza e la forza, non è affatto religione, ma scienza…
Anche la nostra medicina adotta simili procedimenti…
Se la potenza di una ghiandola di vitello è efficace contro il gozzo e il cretinismo, nessuno può sapere quale virtù curativa si potrebbe rinvenire nel cervello del rospo. Tutto dipende qui dall’esperienza. E la nostra medicina si distingue da quella dello ‘stregone’ solo in quanto è più esatta e padrona del metodo sperimentale.




Nell’atrio della religione si collocò la ‘potenza’ e fu assorbita nei ‘riti di comunione’ e nei ‘sacramenti, solo quando incluse in sé l’idea della ‘magia’ e del ‘magico’, del ‘soprannaturale’, in breve, ancora una volta, l’idea ‘del totalmente diverso’.
Vulcani, picchi montani, luna, sole, nuvole, ed altri eventi naturali sono dai semplici e dai primitivi considerati ‘viventi’, e non in base ad una ‘ingenua teoria dell’animazione universale’ o al ‘panteismo’, ma in base al medesimo criterio che noi stessi applichiamo quando al di fuori del nostro io vivente, l’unica cosa che ci risulta direttamente vivente, riconosciamo un altro vivente al di fuori di noi, vale a dire se e nella misura in cui scopriamo in lui moto e azione. Se questo sia giusto o meno, è semplicemente questione di osservazione più o meno accurata. In base a tale criterio quegli oggetti o quei fenomeni naturali possono divenire viventi agli occhi dell’osservatore ingenuo.
Ma tutto questo non conduce ancora al ‘mito’ e alla ‘religione’. In quanto semplicemente viventi, i monti, il sole, la luna, non sono ancora ‘Dèi’. E non divengono tali neppure quando l’uomo si rivolge a essi per chieder loro qualcosa che desidera. Poiché il domandare non è ancora il pregare, e l’attesa fiduciosa non è necessariamente religiosa. Divengono divini solo quando siano investiti dalla categoria del ‘numinoso’.  Ed il ‘numinoso’ fa la sua apparizione solo quando l’uomo cerca, in primo luogo, di esercitare un’azione su quegli oggetti mediante un mezzo ‘numinoso’, vale a dire la ‘magia’, e quando, in secondo luogo, il loro stesso modo sia considerato come ‘numinosa’, vale a dire come ‘magico’. Non già in quanto ‘pensati come animati’ ma perché ‘sentiti come numinosi’ gli oggetti naturali entrano nell’atrio della religione per divenire poi, come ‘deità’ naturali, oggetti di religione.




…Gli esempi sin qui fatti rientrano in quella che possiamo chiamare ‘pre-religione’. Ma non sono tali nel senso che attraverso di essi si possa giungere alla religione e la sua possibilità reale: piuttosto appaiono possibili e spiegabili in virtù di un elemento fondamentalmente religioso, vale a dire come primi moti del sentimento del ‘numinoso’. Ma questo è un elemento primordiale della nostra vita psichica, che deve essere colto nella sua specifica autenticità, non suscettibile di chiarificazione mediante altri elementi: come tutti gli elementi primordiali della vita psichica esso fa la sua apparizione a un dato momento nello sviluppo della spiritualità umana.
Può emergere solo quando determinate condizioni siano in atto, ossia lo studio preciso dell’organismo corporeo e delle altre forze spirituali, una determinata maturità della capacità di stimolo e di spontaneità dell’essere senziente, la sua attitudine a reagire alle impressioni interne ed esterne. Si tratta però di condizioni, non di cause o di elementi.
Questo non significa affatto relegare, la realtà stessa nell’ambito del mistero e del soprannaturale, ma affermare di essa soltanto quello che vale per tutti gli altri coefficienti elementari e primordiali della nostra spiritualità. Piacere o dolore, amore e odio, tutte le facoltà della percezione sensibile, come la capacità di avvertire la luce e il suono, di registrare lo spazio e il tempo, e inoltre tutte le più alte capacità dello Spirito, appaiono – in base a leggi e in particolare condizioni – al momento dovuto, nel processo di evoluzione dell’uomo. Eppure ciascuna capacità è, in se stessa, qualcosa di nuovo, di originale, di non derivabile, di ‘spiegabile’ solamente in virtù del riconoscimento di una zona spirituale ricca di potenzialità, soggiacente al loro sviluppo e realizzante in esse la propria essenza sempre più copiosamente nella misura in cui si attuano le condizioni della formazione organica e cerebrale.
E questo vale anche per il sentimento ‘numinoso’…




...La religione comincia con se stessa ed è nei suoi stadi preliminari del ‘mitico’ e del ‘demonico’. L’antico si manifesta nelle circostanze che stiamo per rappresentare. Si manifesta nel progressivo emergere e rafforzarsi, soltanto in stadi graduali e successivi, dei singoli momenti del ‘numinoso’.
Poiché solo gradualmente esso esaurientemente il proprio contenuto. Ma dove non ha raggiunto la completezza, i suoi primi e parziali elementi costitutivi hanno per natura qualcosa di bizzarro, di mostruosamente incomprensibile, spesso di grottesco. Il che è particolarmente vero per quel momento religioso che, a quanto pare, è stato il primo a erompere dallo Spirito umano: il terrore demonico. E gli esseri di cui si tratta qui sembrano fantasmi prodotti da una fantasia elementare, morbosa, che soffra di una specie di mania di persecuzione.  E’ comprensibile che numerosi studiosi si siano seriamente immaginati che la religione abbia avuto inizio dal culto ‘demonico’ e che il diavolo sia in verità più antico di Dio. Il fatto che sia così difficile classificare le religioni in generi e specie e che chiunque vi si accinge dia conclusioni diverse deriva da questo rafforzarsi progressivo e graduale dei singoli aspetti e momenti del ‘numinoso’.
Poiché quel che deve essere qui classificato non è intimamente collegato come lo sono le differenti specie di un genere, ossia secondo il punto di vista che può offrire una unità ‘analitica’. Si tratta piuttosto di momenti parziali di una unità ‘sintetica’. Sarebbe come se un ‘Grosso pesce (o una grande Balena Bianca…)’ cominciasse a farsi visibile solo in parte al di sopra della superficie dell’acqua, e si volesse subito cercare la curva della schiena, la punta della coda, e la testa grondante acqua, sulla base della ‘species’ e del ‘genus’, invece di mirare ad una reale comprensione dell’apparizione, che solo è possibile collocando le singole parti di un tutto al loro posto e nel ‘loro insieme’.




…Quando nel ‘numinoso’ permangono momenti di ‘inconcepibilità irrazionale’, e altresì quando si manifestano più accentuati man mano che il ‘numinoso’ si rivela; poiché il ‘rivelarsi’ non significa passare necessariamente nella sfera della intelligibilità comprensibile, qualcosa può mostrarsi alle profondità del sentimento, può divenire familiare per la giogaia e l’agitazione che produce. Si può ‘intendere’ profondamente senza ‘comprendere’, come accade ad esempio nella musica. E quel che nella musica è traducibile in concetti, non è più musica.
Conoscere e comprendere concettualmente non sono la stessa cosa: anzi, spesso sono in contrasto stridente fra loro. Per cui la misteriosa oscurità, intraducibile in concetti, del ‘numen’ non coincide assolutamente con la sua ‘inconoscibilità’.
…E Plotino afferma…

Come possiamo parlarne, se in nessun modo lo comprendiamo?
Ebbene, se sfugge alla nostra conoscenza, non per questo ci sfugge totalmente. Noi lo cogliamo in maniera tale da poter parlare di Lui (ideogrammaticamente) senza però poterlo fare in modo adeguato. Nulla però ci è da ostacolo nel possederlo, anche se non possiamo esprimerlo, simili in questo ai maniaci e agli invasati, i quali sanno di ospitare in sé qualcosa di più alto, ma non ‘sanno’ che cosa esso sia. Essi attingono da quel che li eccita e li ha trascinati fuori di sé un’impressione dello stesso eccitante.
…Qualcosa di simile è la nostra relazione con l’Uno…
…Se noi ci innalziamo sino a Lui con l’aiuto del puro Spirito, noi lo sentiremo…

Sono due cose ben distinte, credere solamente in una realtà soprasensibile o farne l’esperienza; avere delle idee intorno al Sacro o percepirlo e sentirlo come una realtà operante che si manifesta attivamente. E’ convinzione fondamentale di tutte le religioni che anche la seconda alternativa sia possibile, che di essa diano testimonianza non solamente l’intima voce, la coscienza religiosa, lo Spirito sottilmente parlante nel cuore, il sentimento e lo struggimento, ma che la si possa direttamente costatare in particolari circostanze e in peculiari eventi, manifestata in individui e in autorivelazioni.