CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 21 marzo 2014

CANI DI PASSAGGIO: i comici regi (o regnanti...) (87)



































Precedente capitolo:

Gente di passaggio: la polizia dell'anima (86)

Prosegue in:

Cani di passaggio: i comici regi (o regnanti) (88)












Siccome il mio padrone era miserabile e tacccagno, come son tutti quelli
della sua razza, mi manteneva con pan di miglio e con qualche avanzo di
polenta di sorgo, loro comune alimento; ma il cielo m'aiutò a sopportare
quella miseria in un modo stranissimo che ora ascolterai.




Ogni mattina, come spuntava l'alba, trovavo seduto, al piede di un melo-
grano, dei tanti che c'erano nell'orto, un giovanotto, studente all'apparen-
za, vestito di baietta, non tanto nera né tanto pelosa da non parere grigia
e rasata.
S'affannava a scrivere in un certo scartafaccio, e di tanto in tanto si per-
cuoteva la fronte col palmo della mano e si mordeva le unghie, restando
a guardar fisso il cielo; altre volte restava tanto immerso nei suoi pensie-
ri, che non moveva né piede né mano e non batteva ciglio, tant'era il ra-
pimento in cui cadeva.
Una volta m'accostai a lui senza che s'accorgesse di me; lo sentii borbot-
tare tra i denti, e dopo un pezzo sbottò in un gran grido dicendo: 'Vivad-
dio è l'ottava più bella che abbia fatto in tutta la mia vita!'.




E scrivendo in tutta fretta nel suo scartafaccio, si mostrava soddisfatto;
il che mi fece capire che quel disgraziato era un (vero) poeta.
Gli feci le mie solite moine per dimostrargli la mia mansuetudine; mi ste-
si a terra ai suoi piedi, ed egli, rassicurato, s'immerse di nuovo nei suoi
pensieri, e tornò a grattarsi la testa, a cadere in estasi e a scrivere poi
quel che aveva pensato.
Mentre era così occupato, entrò nell'orto un altro giovanotto, garbato
e ben vestito, con certe carte in mano, nelle quali di tanto in tanto leg-
geva.
Giunse dov'era il primo, e gli domandò: 'Avete finito il primo atto e
anche lo scatto....?'.
'L'ho finito or ora', rispose il poeta, 'nel modo migliore che immaginar
si possa'. 'E come?', domandò il secondo. 'Così', rispose il primo:
'Entra Sua Santità il papa in abito pontificale, con dodici cardinali tut-
ti vestiti di violetto, perché quando accadde il fatto che costituisce l'-
intreccio della mia commedia, era il tempo della mutatio capparum,
nel quale i cardinali non vestono di rosso ma di violetto; e perciò bi-
sogna a ogni modo rispettare la situazione, che questi miei cardinali
entrino in scena con i mantelli paonazzi.
E questo è un particolare della massima importanza per la mia com-
media, e di certo qui gli altri avrebbero sbagliato, poiché ad ogni pas-
so commettono mille errori ed improprietà. Ma io in questo non ho
potuto sbagliare, perché mi son letto tutto il cerimoniale romano, so-
lamente per imbroccarla a proposito di questi vestiti'.




'Ma dove volete', replicò l'altro, 'che il mio capocomico abbia abiti
paonazzi per dodici cardinali?'. 'Ebbene, se me ne toglie anche uno
soltanto', rispose il poeta, 'io gli darò la mia commedia tanto facil-
mente come potrei mettermi a volare. Corpo di Bacco! E vorreste
mandare in rovina una scena così grandiosa? Immaginate un po', di
qua, che figura farà in teatro un sommo pontefice con dodici solen-
ni cardinali e con tutto il seguito che per forza si devon tirar dietro.
Giuro al cielo che sarà uno dei più grandi e solenni spettacoli che
mai si sia visto in una commedia, foss'anche quella del Mazzolino di
Daraja!'.




A questo punto mi persuasi del tutto che il primo era un poeta e il
secondo un attore.
L'attore consigliò al poeta di tagliare un pochino sui suoi cardinali,
se non voleva rendere impossibile al capocomico la rappresenta-
zione del lavoro; al che il poeta rispose che doveva ringraziarlo se
non ci aveva messo dentro tutto il conclave ch'era riunito durante
i memorabili fatti che voleva richiamare alla memoria della gente
nella sua magnifica commedia; il comico rise, e lo lasciò alle sue
occupazioni per andare a fare il mestiere, ch'era quello di studiare
una parte per una nuova commedia.
Il poeta dopo aver scritto qualche altra strofa del suo capolavo-
ro, con molta compostezza e molto tono tirò fuori di tasca alcuni
tozzi di pane e una ventina di chicchi d'uva passa, che a quel che
mi pare, gli contai a uno a uno, e sono ancora in dubbio se fosse-
ro proprio tanti, perché insieme con essi c'erano, a far numero,
certi bricioline di pane che li accompagnavano.




Ci soffiò sopra e fece cadere le briciole e poi, uno alla volta, si
mangiò i chicchi d'uva con tutti i gambi, giacché non gliene vidi
buttar via nemmeno uno, spingendoli giù con i tozzi di pane che,
colorati com'erano dalla fodera della tasca, sembravano ammuf-
fiti, ed erano talmente duri di indole che, sebbene egli cercasse
di ammorbidirli girandoseli in bocca molte e molte volte, non riu-
scì a smuoverli dalla loro ostinazione.
Il ché ridondò infine a mio vantaggio, perché me li tirò dicendo:
'TOH! TOH! PRENDI, E BUON PRO TI FACCIANO!.
'Guarda un po'', dissi tra me, 'che nettare e che ambrosia mi dà
questo poeta, sebbene sogliano dire che di ciò si mantengono
gli Dèi e il loro Apollo, sù in cielo!'.




In realtà, almeno per la maggior parte, la miseria dei poeti è gran-
de; ma il mio bisogno era più grande ancora, se mi costrinse a
mangiar quello ch'egli buttava via.
Finché durò la composizione della sua commedia, egli non trala-
sciò un sol giorno di venire nell'orto, né a me vennero a mancare
tozzi di pane, perché egli li divideva con me con grande liberalità;
poi ce ne andavamo alla noria, dove, io a quattro zampe ed egli
con il secchio, ci si toglieva la sete come due re.
Ma poi il poeta non venne più, ed in me la fame giunse a tal pun-
to che decisi di abbandonare il mio amico e di andarmene in cit-
tà a tentare la sorte, ché chi cerca trova.....'.

(Prosegue...)

(M. de Cervantes, Novelle esemplari, Colloqui dei cani;
 Fotografie di: Zack Secklers)














Nessun commento:

Posta un commento