CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 7 febbraio 2020

STORIE D'OLTRE CONFINE (Racconti d'Archivio) [7]



















Precedenti capitoli:

Storia Universale

dell'infamia

Prosegue in:

Storie d'oltre confine (seconda parte)










Il sei febbraio del 1829, gli armati che, inseguiti da Lavalle, marciavano
provenienti da sud, per unirsi alle divisioni di Lòpez, si fermarono in una
fattoria il cui nome ignoravano, a tre o quattro leghe dal Pergamino; ver-
so l'alba, uno degli uomini ebbe un incubo tenace: nella penombra della
capanna, il confuso grido destò la donna che dormiva con lui.
Nessuno sa quel che sognò, poiché il giorno dopo, alle cinque i guerriglie-
 ri furono sbaragliati dalla cavalleria di Suàrez e inseguiti per nove leghe,
fino ai campi di stoppie, già squallidi, e l'uomo morì in un fosso, il cranio
 rotto da una sciabola delle guerre di Perù e Brasile.
La donna si chiamava Isidora Cruz; il figlio ch'ebbe, ricevette il nome di
 Tadeo Isidoro.
La mia intenzione non è quella di ripetere la sua storia. Dei giorni e del-
le notti che la compongono, m'interessa solo una notte; del resto, non
riferirò che l'indispensabile perché quella notte sia compresa.
L'avventura si trova in un libro insigne; cioè in un libro la cui materia
può essere tutto per tutti, poiché è capace di quasi inesauribili ripeti-
zioni, versioni, perversioni.
Coloro che hanno commentato, e son molti, la storia di Tadeo Isido-
ro, sottolineano l'influsso della pianura sulla sua formazione, ma 'gau-
chos' identici a lui nacquero e morirono sulle selvagge rive del Paranà
e sulle colline dell'Uruguay.
Visse è vero, in un mondo di barbarie monotona.
Quando nel 1874, morì di vaiolo nero, non aveva mai visto una monta-
gna né un becco a gas né un mulino. E neppure una città.
Nel 1849, era andato a Buenos Aires con gli uomini della tenuta di Fran-
cisco Xavier Acevedo; andarono tutti in città a scialacquare il denaro;
Cruz, diffidente, non mise piede fuori di una locanda vicina ai recinti
del bestiame.
Passò lì più giorni, taciturno, dormendo in terra, sorbendo mate, alzan-
dosi all'alba e andando a dormire all'avemaria. Capì che la città non ave-
va niente a che fare con lui.
Uno degli uomini, ubriaco, si burlò di lui. Cruz non gli rispose, ma nel ri-
torno, di sera, accanto al fuoco, l'altro ripeteva le beffe, e allora Cruz lo
atterrò con una pugnalata.
Fuggiasco, dovette riparare in un canneto; qualche notte più tardi, il gri-
do d'un trampoliere l'avvertì che l'aveva circondato la polizia. Provò il
coltello in un cespuglio; perché non lo molestassero nella lotta, si tolse
gli speroni.
Preferì battersi ad arrendersi.
Fu ferito all'avambraccio, alla spalla, alla mano sinistra; ferì i più auda-
ci del gruppo; quando il sangue gli corse tra le dita, lottò con più rab-
bia che mai; all'alba, stordito dalla perdita di sangue, lo disarmarono.
Il servizio nell'esercito, allora, fungeva da punizione; Cruz fu destinato
a un fortino della frontiera nord. Come soldato semplice, partecipò alle
guerre civili; a volte combatté per la sua provincia natale, a volte con-
tro.
Il 23 gennaio del 1856, alle Lagune di Cardoso, fu uno dei trenta bian-
chi che, al comando del sergente maggiore Eusebio Laprida, combatte-
rono contro duecento indi.
In quell'occasione ricevette una ferita di lancia.
(Prosegue.....)













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