CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 7 aprile 2012

LA VIA CRUCIS: UNA STAZIONE












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Dimmi la verità,
dimmi perché Gesù fu crocefisso
E' per questo che quell'uomo è morto?
Era per te?
Ero io?
(The Post War Dream, R. Waters)





IL GRECO

































Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell'Armata Rossa ormai vicina,
i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre al-
trove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con
le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono
diversamente: ordini superiori imponevano di 'recuperare', a qualunque costo,
ogni uomo abile al lavoro.
Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchen-
wald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da va-
ri indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi
di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e
la rapidità dell'avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prende-
re la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.























Nell'infermeria del lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in 800. Di questi,
circa 500 morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivasse-
ro i russi, ed altri 200, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso mezzogiorno del 27
gennaio 1945.
.......La libertà, l'improbabile, impossibile libertà, così lontana da Auschwitz,
che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta: ma non ci aveva portati alla Ter-
ra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta.
Ci aspettavamo altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure (altre
calunnie....).
Io ero digiuno ormai da ventiquattro ore.




















Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l'uno contro l'altro per
proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre
teste , malferme sui colli, urtavano contro le tavole della parete.
Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso
per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle
che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e
che arrivi alla meta; e che nell'atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga
rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa nel buio, verso un
altro traguardo non si sa quanto lontano.
Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e così
il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi sche-
mi della natura; e quale conquista rappresenti, nella storia del pensiero umano,
il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire, ma un blocco
informe da scolpire, ....o un nemico a cui opporsi.




















Il treno viaggiava lentamente.
Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti, poi scese una notte
totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del
vagone ci impediva di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mor-
tale.
Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo
finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura.
Il greco delirava (parlava di velieri, coste e mari...): degli altri, quale per pau-
ra, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto
nessuno volle scendere dal vagone.
Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una fines-
trella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c'era una stufa
accesa. Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo
gesto di minaccia, ma nessuno badò a me.
Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all'istante, come si impara a fare
in Lager.
Mi svegliai qualche ora dopo, all'alba.
La cabina era vuota.
























Non ricordo quanto tempo rimasi in quel posto.
Il telegrafista mi vide alzare il capo, e mi pose accanto, a terra, una gigantesca
fetta di pane e formaggio (e un bicchiere di latte).
Ero sbalordito (oltre che mezzo paralizzato dal freddo e dal sonno) e temo
di non averlo ringraziato. Mi infilai il cibo nello stomaco e uscii all'aperto: il
treno non si era mosso. Nel vagone, i compagni giacevano inebetiti; al veder-
mi si riscossero, tutti salvo il jugoslavo, che cercò invano di muoversi (vede-
va la sua Serajevo...e altri morti....).
Il gelo e la immobilità gli avevano paralizzato le gambe: a toccarlo urlava e
gemeva. Era stata per tutti una notte terribile, forse la peggiore dell'intero
nostro esilio. Ne parlai col greco: ci trovammo d'accordo nella decisione
di stringere sodalizio allo scopo di evitare con ogni mezzo un'altra notte di
gelo, a cui sentivamo che non avremmo sopravvissuto.
....Il treno ripartì, e con tragitto tortuoso e vago ci condusse ad un altra
stazione e luogo chiamato Szczakowa........
(Primo Levi, La tregua)










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